Dopo la richiesta dei legali di Alberto Stasi di revocare la sentenza della Suprema Corte del 12 dicembre 2015, che lo aveva condannato definitivamente, la Cassazione ha giudicato il ricorso inammissibile: ecco i perché.
Il caso di Garlasco è definitivamente chiuso per la Cassazione. Non ci sono state sviste né errori da parte della Corte Suprema. Sono state depositate le 10 pagine in cui la prima sezione penale ha motivato la sentenza con cui, il 27 giugno, è stato respinto il ricorso straordinario presentato dai legali di Alberto Stasi. Per i difensori dell’ex bocconiano la quinta sezione della Cassazione, con la sentenza del 12 dicembre 2015 che aveva condannato in via definitiva il ragazzo a 16 anni di reclusione per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, non si era accorta che i giudici dell’appello bis avevano “dimenticato” di ascoltare 21 testimoni, tra periti e vicini di casa della vittima. Testimonianze che, secondo la difesa, avevano portato all’assoluzione dell’imputato nel primo grado di giudizio.
Un omicidio efferato quello avvenuto ai danni di Chiara Poggi, una giovane laureata in economia e uccisa nella propria abitazione il 13 agosto del 2007 a Garlasco. Ormai sono passati 10 anni e per la giustizia italiana Alberto Stasi è l’unico colpevole della morte della fidanzata. L’ex bocconiano, che da sempre continua a professarsi innocente, non si è arreso all’ultima sentenza di condanna e con i suoi legali ha lottato per ottenere un nuovo giudizio. Per la Cassazione però il ricorso è inammissibile.
Come riportato da Il Giorno, il ricorso non è stato accettato perché in primis, lo stesso, è stato depositato nella cancelleria da un avvocato del Foro di Roma che non aveva il titolo per farlo: “Il ricorso straordinario è stato presentato da un soggetto che non risultata essere stato ‘incaricato’ neppure oralmente dal condannato – si legge nelle motivazioni – il quale, come sostenuto nella memoria dell’avvocato Giarda, aveva invece ‘incaricato’ questi al deposito del ricorso straordinario”. Nel merito del processo, anche ammettendo che i giudici del secondo processo d’appello di Milano abbiano annullato l’assoluzione del primo grado e deciso la condanna di Stasi senza riascoltare i testimoni, i difensori di Stasi avrebbero dovuto farne oggetto d’impugnazione e lamentela nel ricorso in Cassazione. Ciò però non è stato fatto. Per questo motivo, secondo i giudici della Corte Suprema di Cassazione, non è stato commesso alcun errore percettivo e nel corso dei processi sono state tenute ben presenti le testimonianze. “Nel caso concreto, contrariamente a quanto sostenuto dallo Stasi e dalla sua difesa – evidenziano i giudici – risulta chiaramente dalla lettura della sentenza emessa il 12 dicembre 2015 dalla Corte di Cassazione, che i giudici di legittimità avevano ben presente il concreto sviluppo di tutta la vicenda processuale, rinvenendosi nelle decisione suddetta molteplici riferimenti al momento e, dunque, alla fase o grado del giudizio cui le risultanze processuali a contenuto dichiarativo furono assunte”. È stata quindi cristallizzata la condanna del fidanzato della vittima, il quale è stato sanzionato dalla Cassazione al pagamento delle spese processuali, al versamento di 2 mila euro alla cassa delle ammende, a rifondere le spese processuali sostenute dalle parti civili: 4800 euro in favore dei genitori di Chiara, Giuseppe Poggi e Rita Preda, e 4mila euro al fratello Marco.
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