I femminili professionali? Sono perfettamente corretti in lingua italiana. “L’unica differenza tra maestra e avvocata, è che al primo termine il nostro orecchio è abituato mentre al secondo no. La mancata presenza nell’uso è dovuta semplicemente all’assenza delle donne in determinati ruoli”. Così Vera Gheno, sociolinguista e docente presso l’Università di Firenze, in un’intervista al quotidiano Il Dubbio risponde a un lettore che chiede di abbandonare l’uso del termine avvocata perché lo ritiene scorretto.
Non è vero, invece. “Basterebbe consultare un dizionario aggiornato negli ultimi dieci anni… in italiano si dice avvocata – spiega la professoressa -. Per vari motivi: storicamente, prima nel latino e poi nell’italiano, i femminili professionali sono stati usati tutte le volte che ce n’era bisogno. Cioè tutte le volte che una donna ricopriva un certo ruolo, anche in maniera inattesa. “. “Già nel latino troviamo l’uso di ministra, in senso di governatrice. Più avanti troviamo la giudicessa o giudichessa riferito ad Eleonora d’Arborea, amministratrice del XIV secolo in Sardegna.”
Termini insoliti o neologismi?
I problemi sorgono, a quanto pare, quando ci si confronta con femminili ‘insoliti’, poco sentiti e poco conosciuti. Ecco perché ci appaiono strani e dunque, per un’errata associazione mentale, scorretti in lingua italiana. “Alcuni li definiscono neologismi – ha dichiarato ancora la professoressa Gheno – e li trattano con la stessa diffidenza riservata generalmente alle parole nuove. Altri li reputano superflui, o cacofonici, o una corruzione dell’italiano tradizionale. Ma non è propriamente così.”
Tuttavia in ambito professionale, spesso sono proprio le donne le più refrattarie all’uso del femminile. La questione si è politicizzata, diventando un’istanza femminista: molte donne non vogliono essere additate come tali, per non rientrare in un certo stereotipo culturale. “In molti contesti, tra cui quello giuridico, – aggiunge Gheno – il titolo maschile è percepito come corretto, mentre quello femminile risulta svilente. Questo è un problema che noi donne dobbiamo discutere con noi stesse: non è un problema linguistico, ma culturale”.
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