“I soldi non fanno la felicità” è modo di dire piuttosto diffuso; eppure, qualcuno ha spesso smentito questa (forse) idealistica credenza. A chiarire la diatriba tra i sostenitori del denaro e i suoi detrattori pare ci abbia pensato la scienza. Uno studio, infatti, ha affermato che un discreto conto in banca è un aspetto positivo nella vita delle persone, ma non bisogna superare una certa somma; l’effetto potrebbe essere opposto.
A specificare quanti soldi occorrono per essere veramente felici è una ricerca condotta dagli scienziati della Purdue University, negli USA. Gli studiosi hanno individuato una sorta di soglia critica oltre la quale la felicità potrebbe tramutarsi in disperazione. Con l’aumento del reddito, afferma lo studio, potrebbero aumentare anche stress, insoddisfazione e nervosismo. Per chi potrebbe rimanere stupito da questa teoria, basti pensare che i ricercatori sostengono che il denaro dovrebbe essere investito per soddisfare le esigenze primarie, il resto è superfluo o persino deleterio.
Gli scienziati della Purdue University hanno analizzato un campione di 1 milione e 700mila persone di 164 Paesi diversi; gli studiosi hanno chiarito che la loro teoria vale per tutti, senza distinzione di genere o età. La soglia critica individuata dai ricercatori è 80mila euro annui; ma si può raggiungere la felicità anche con un reddito tra i 48mila e 60mila euro all’anno. Il denaro investito nell’acquisto di case e beni primari legati alla sopravvivenza è complice della serenità e soddisfazione personale (concesso anche qualche piccolo sfizio), se si sfora però si rischia di procurare danni alla propria felicità. Lo studio sostiene, infatti, che un eccessivo possesso di denaro potrebbe innescare un meccanismo che induce a spese folli causa di scarsa serenità. Ad influire sul grado di tranquillità è anche il ceto sociale d’appartenenza; i ricercatori hanno, infatti, osservato che chi ha studiato di più trae maggiore soddisfazione dal proprio reddito, perché vive la pressione del confronto con chi appartiene alla propria classe sociale. Il paragone però genera frustrazione; di conseguenza, si potrebbe tornare all’assunto inziale e riflettere sull’esistenza (o meno) di una misura reale che lega i soldi alla vera felicità.
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